Con molti figli e senza figli, regolarmente sposati e con compagni di vita, persone sole, giovani o splendidamente anziani. La prima cosa che abbiamo capito nel percorso di affiancamento dei minori e dei neomaggiorenni in famiglia (e accompagnando tante famiglie in questa esperienza) è che questo tipo di supporto leggero ai ragazzi migranti non richiede delle caratteristiche di partenza specifiche.
È vero che il legame di ciascuna famiglia con un ragazzo è unico e privilegiato. La famiglia è quella che ne raccoglie le fatiche e confidenze, i racconti drammatici di viaggio, le nuove paure e soprattutto le nuove speranze. Il legame è personale e prezioso e tuttavia non è esclusivo: i ragazzi sono di tutti.
Le famiglie che nel tempo si sono affiancate alle nostre hanno preso a cuore il destino di un ragazzo, senza perdere però la propria mission che è politica: il primo obbiettivo è la creazione di condizioni di integrazione. La cosa più importante che le famiglie possono mettere in campo sono le relazioni e le reti sociali, attraverso cui possono far andare più lontano i ragazzi, ma in nessun modo ne devono privatizzare il destino.
Ci sono momenti di smarrimento, momento in cui si raggiunge il limite delle forze. Quando si arriva tardi a rinnovare un permesso, quando si scopre che uno dei ragazzi lavora da mesi senza essere pagato, quando dopo avere fatto i salti mortali i ragazzi iniziano a litigare come dei matti mettendo a repentaglio la loro (pacifica) convivenza, quando un ragazzo si perde o è troppo difficile perché una famiglia possa farsene carico. In quei momenti ci ha sempre soccorso la condivisione delle preoccupazioni e una leggera ironia.
Se hanno attraversato il deserto e il mediterraneo non è per stare comodi su un divano in Europa o fare gli eterni stagisti. Sono partiti per lavorare, costruirsi in fretta una propria autonomia. Sono dei giovani adulti, hanno bisogno di un piccolo supporto concreto momentaneo in una fase di passaggio della loro storia, ed hanno bisogno come tutti noi di legami saldi su cui contare per sempre. Ma non ci si deve mai dimenticare che arrivano per ripartire, non per restare.
Metterci la faccia, osare, chiedere: è quello che possiamo fare come società civile matura, senza attendere che lo faccia qualcun altro per noi. A costo di risultare impertinenti. Perché non chiediamo per noi e neppure per i nostri figli. La nostra rete è nata dal passaparola, dal collega a cui abbiamo raccontato la nostra storia che si è subito attivato con noi per trovare case, lavoro, risorse economiche.
Non possiamo accontentarci di piccoli numeri. I ragazzi che migrano soli hanno bisogno di casa, di protezione, di un telefono per chiamare la mamma, di letti dove dormire, di madri e padri temporanei, disposti a condividere qualcosa con loro. Non possiamo delegare la loro crescita alle istituzioni, alle cooperative, ai servizi sociali, pur fondamentali nel loro prezioso lavoro di accoglienza.